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Non sbaglia affatto chi mi fa notare che gli Amarcord riferiti agli anni dopo il 2000 sono molto rari. Touchè. Articolato spiegare perché. I motivi sono strettamente collegati tra loro. La disillusione è più brutta della delusione ed in me ad un certo punto è subentrata la disillusione. Quando vengono a mancare punti di riferimento ci si sente persi e a me sono venuti a mancare troppi punti di riferimento biancorossi. Quando perdi entusiasmo tutto diventa routine ed io ad un certo punto ho perso entusiasmo. Quando rotoli in C2 capisci che non è più calcio ma lippa ed il Monza ad un certo punto è sprofondato in C2. E poi addirittura in D, cioè lippa al quadrato. O al cubo. Quando ti imbatti in presidenti tipo Belcolle, D’Evant, Atzeni, Magnoni, Armstrong, Bingham, Montaquila pensi di essere su Scherzi a Parte e ti senti preso per la parte meno nobile del corpo.

Parafrasando il grande Renato Zero: quelli dal 2000 in poi non sono certo stati i migliori anni della nostra vita. Prendendo in prestito il mitico Luigi Pirandello: ho trovato sul mio tragitto tante maschere e pochi volti. Qualche eccezione però c’è stata. In primis chi ha tanto lavorato dietro le quinte per garantire le varie sopravvivenze. A livello gestionale positiva l’era Benigni (che – ai miei occhi – ha rovinato tutto nella settimana prima della partita di Pisa) e da salutare con gratitudine quella di Colombo. Per quanto riguarda i mister abbiamo dedicato una puntata della rubrica all’ottimo Giuliano Sonzogni e ci siamo commossi per la competente abnegazione di Fulvio Pea mentre il sottoscritto continua a preferire il ricordo di Asta giocatore a quello di Asta allenatore.

C’è però, a mio avviso, una figura che emerge e si staglia non solo per i suoi 193 centimetri ma, soprattutto, per tutto il suo vissuto in biancorosso. Una figura che è stata prima capitano esemplare in campo e poi condottiero inappuntabile in panchina portando i colori bellissimi fuori dalla lippa al quadrato. O al cubo. Una figura che svetta per professionalità, serietà, carisma, attaccamento alla maglia. Una figura che sarà immortalata per sempre su una foto di struggente bellezza mentre ad ali aperte corre verso l’abbraccio di una curva in estasi in un pomeriggio di giugno a Sassuolo. Una figura che – colpa solo mia, della mia disillusione, della mia perdita di entusiasmo – mi sarebbe piaciuto conoscere e vivere di più. Una figura che è stata volto del Monza senza mai nascondersi dietro ad una maschera.

Una figura che ho apprezzato in modo assoluto per la signorilità sfoderata al momento di un distacco non esattamente comprensibile: silenzio, macerazione interna e … nessuna comparsata a Bobo TV. Una figura che le mie reminiscenze di Storia dell’Arte mi fanno accostare ad una statua dello scultore ateniese Fidia: per equilibrio, per serenità, per simmetria, per naturalezza dei gesti, per fierezza. Una figura che, a completare l’accostamento storico/artistico/geografico con quello calcistico, sta facendo discretamente in una realtà (ripescata in extremis) come Cosenza dove le tracce della Magna Grecia sono imprescindibile patrimonio culturale. I tifosi biancorossi lo hanno giustamente amato e continuano ad amarlo. Giustissimamente. Non so come andrà la partita ma ho già una certezza per martedì sera: più o meno alle 20.27 il Brianteo tributerà una standing ovation da brividi ad una figura che se la merita tutta. Per quello che è stato. Per quello che ha dato. Per quello che sempre rappresenterà nella storia del Calcio Monza. Una figura che si chiama Marco Zaffaroni.

Fiorenzo Dosso