Amarcord Biancorossi - Autunno 1997: al Monza arriva Maciste Bolchi, quell'attacco alla stampa locale...
Mi è stato fatto notare che tutti i miei numerosi Amarcord Biancorossi hanno avuto sinora il comune denominatore del “positivo”. Partite indimenticabili, calciatori che hanno segnato epoche, allenatori leggendari. Eppure nei 25 anni in cui sono stato corrispondente del Corriere dello Sport l’ambiente biancorosso mi ha considerato (a ragione) sempre molto critico. Dovessi scomodare il “De Senectute” di Cicerone per spiegare che invecchiando ci si addolcisce rischierei di passare un po’ per ‘rinco’ dall’ età che avanza inesorabile ed allora meglio dedicare una puntata a chi non ha lasciato in me buoni ricordi. Premettendo che – per il mio modo di intendere il calcio, la vita, i rapporti – non c’entrano nulla vittorie e trofei. Ad esempio: tra gli allenatori che ho stimato di più ce ne sono due, Simone Boldini e Giuliano Sonzogni, che non hanno ottenuto promozioni. Per me contano altre cose. Sia dal punto di vista tecnico che da quello umano.
Il mister con cui non ho avuto nessun feeling – ma proprio nessuno – è stato uno che pure in carriera vanta 4 conquiste della Serie A (Bari, Cesena, Lecce e Reggina) e 2 della B (Bari e Reggina): Bruno Bolchi. Maciste – il primo calciatore ad essere immortalato sulle mitiche figurine Panini con la maglia dell’Inter nel 1960 – arrivò al Monza ad inizio autunno 1997. A distanza di cinque lustri riconosco onestamente come peccato originale il mio essere prevenuto nei suoi confronti perchè era stato scelto per sostituire Gigi Radice, ovvero chi incarnava alla perfezione il mio modo di intendere il romanticismo biancorosso. Lui, Bolchi, da parte sua non fece mai nulla per insinuare in me almeno il germe del cambiamento di opinione. Dal punto di vista dei risultati (di gioco manco a parlarne …) inanellò una sfilza di pareggi consecutivi (6) prima del rovinoso cappotto (5-1) nella Marassi rossoblù cui seguì un’altra X a Lucca (uno 0-0 raccapricciante). Ma è dal punto di vista del relazionarsi e del rapportarsi che quando ripenso a Maciste mi incazzo ancora a distanza di così tanto tempo.
Primo flashback: Monzello, fine della rifinitura. Quello di solito era il momento in cui gli allenatori entravano maggiormente in empatia con noi cronisti locali (mi dicono che sia così quest'anno anche con Stroppa): clima rilassato, adrenalina della partita ancora lontana, scambio di opinioni anche su altri argomenti. Bolchi, sulla panca del Monza da un mesetto, arriva e snocciola gli indisponibili, poi si analizza il momento e un collega butta là in tono molto colloquiale e discorsivo una frase totalmente condivisibile: “Da quando ci sono i tre punti a vittoria il pareggio vale molto meno di prima. Ad esempio se in queste sue prime quattro partite invece di quattro pareggi fossero arrivate due vittorie e due sconfitte avremmo raccolto 6 punti contro i 4 che abbiamo raggranellato … “ Talmente lapalissiano da non necessitare repliche. Maciste però pensa di leggere tra le righe una velata critica al suo atteggiamento tattico noiosamente prudente (cosa, peraltro, reale) e si scatena in una filippica dai toni mitologici: “Io ho vinto campionati e sono amico di giornalisti televisivi importanti … Voi non capite un tubo (eufemismo) di calcio, è inutile che perdo tempo a parlare con chi non comprende che muovere le classifica è sempre importante e pareggiare è meglio che perdere …”
C’è stato, soprattutto, un post partita che ha racchiuso – nel breve volgere di una decina di minuti – la summa dell’insopportabile prosopopea bolchiana. I biancorossi hanno appena beccato 5 pappine da un povero Genoa (alla vigilia del match le due squadre erano appaiate in penultima posizione) e Maciste si presenta nella sala stampa del Ferraris dopo aver confabulato con un giornalista amico che lo invitava spesso nella rubrica settimanale dedicata dalla Rai alla Serie B. I cronisti genovesi lasciano che i primi a fare domande siano i colleghi ospiti. Da Monza siamo in due o forse tre. Uno di noi la butta lì: “Mister, come si commenta questo disastro ?” Lui serafico: “Disastro? Perché disastro ? Prima di venire qui ho parlato con Paganini (il giornalista Rai suo amico, ndr) e Paolo mi ha detto di aver visto un buon Monza …” Marietto Bonati – caporedattore dello Sport de Il Cittadino seduto al mio fianco – si alza e se ne va. Resto solo mentre un collega ligure ci prova: “Forse dopo il pareggio avreste dovuto approfittare di un Genoa in grossa difficoltà psicologica e duramente contestato dal pubblico” Maciste fa spallucce, allarga le braccia e rasenta l’incredibile: “mah … io vorrei far notare che se la partita fosse finita al minuto 80 il risultato sarebbe stato di 1-1” … Essere presi per la parte meno nobile del corpo ha un limite, chiedo il microfono e: “Scusi, Mister ma gli incontri di calcio durano 90 minuti. Perché mai oggi avrebbe dovuto concludersi dieci minuti prima ? Sarebbe interessante invece sapere perché la squadra ha avuto un crollo verticale che l’ha portata a beccare 4 gol in meno di dieci minuti … Questione di testa ? Questione di gambe ? Sentirsi dire però che se l’arbitro avesse fischiato la fine con 10’ di anticipo il Monza avrebbe pareggiato non sta nè in cielo nè in terra. E' una presa in giro, la saluto e me ne vado” consegno il microfono alla hostess ed esco.
Ci sarebbero almeno altri sette od otto episodi, gustosi da raccontare adesso a 25 anni di distanza, ma che all’epoca mi fecero parecchio girare quelle cosine là, per far capire la mia idiosincrasia nei confronti di Bruno Bolchi. Totale. A 360 gradi. Tecnica ed umana. Confidenze – sempre gelosamente tenute per me e mai divulgate – di qualche giocatore e di alcuni membri dello staff non facevano altro che aumentare la mia disistima nei confronti di Maciste. Che, da parte sua, riteneva noi cronisti locali una sorta di insopportabilmente fastidioso orpello di Serie C rispetto alle sue nobili frequentazioni di firme prestigiose … Quelle lo adulavano e lui le adorava, noi facevamo semplicemente domande e lui si inalberava. Furono cinque mesi allucinanti. Quando – primi di marzo del 1998 – il Monza gli diede il benservito per affidarsi a Frosio (che portò quel Monza in salvo) provai felicità. Totale. A 360 gradi. Tecnica e – soprattutto – umana.
Fiorenzo Dosso