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La scena che si presentò ai soccorritori fu devastante. I vagoni accartocciati mostravano pareti macchiate di sangue e resti sparsi ovunque: riviste popolari, uova trasportate dai contadini per i mercati di Milano, valigie e sedili di velluto grigio macchiati di rosso. La nebbia densa amplificava la sensazione di desolazione.

I superstiti, molti feriti gravemente, raccontarono momenti di terrore. ‘C’è stato uno strattone, poi siamo finiti gli uni contro gli altri’ ricordò - come riportano i colleghi del Corriere.it - Margherita Radaelli, una giovane operaia. ‘Odore di gas, urla ovunque. Solo allora ho capito di essere viva’.

Il viadotto crollato diventò un simbolo di dolore e disperazione. A Monza, l’ospedale si trasformò in un’infermeria di emergenza, con ambulanze in continuo viavai fino al pomeriggio. Mancavano sangue e plasma per i feriti, e l’appello ai donatori mobilitò l’intera comunità.

Le cause e i sospetti: errore umano e nebbia

Le indagini puntarono subito all’errore umano. Il treno avrebbe dovuto procedere a velocità ridotta, ma il tachimetro del locomotore segnava 90 chilometri orari. La nebbia fitta di quella mattina, secondo l’inchiesta, contribuì a far perdere al macchinista la percezione dello spazio, portandolo a ignorare il segnale di rallentamento. Quando Pierino Vacchini si accorse dell’errore, la frenata d’emergenza aggravò ulteriormente l’instabilità del treno.

L’aiuto macchinista, Andrea Giuliano, sopravvissuto allo schianto, sostenne di aver cercato invano di rallentare il convoglio. La sua testimonianza, carica di rimorso, rimase al centro delle indagini, ma la tragedia era ormai irreversibile.

Un addio collettivo: il saluto di Monza